Il film Turner

film_TurnerMetodi di lavoro, modi di vivere, opere tra maturità e morte del grande pittore inglese William Turner (1775-1851), nonché di alcune figure della sua vita, come la devota governante-amante, suo padre  e la donna che molto lui amò, benché in egoistica semiclandestinità.
L’acclamato inglese Mike Leigh è l’autore, nel senso di regista-sceneggiatore, oltre che produttore, di questo bel film (UK-FRA-GER, 14). È un’opera strana, perché decisamente lontana da ogni stereotipo di biopichollywoodiano: il biographic-epic movie, la narrazione romanzata della vita.
Ed è comunque una scommessa azzardata: cosa può interessare lo spettatore attuale della vita di un tizio, magari anche eccelso, se non c’è traccia di dramma, amori, sesso, intrighi, violenze e guerre? Nell’esistenza di questo pittore, famoso già in vita – e ancor di più oggi – in patria e all’estero, è tutto molto lineare. Ma solo in apparenza.
La via che sceglie questo maestro del cinema inglese ed europeo, nel descrivere l’arte di Turner è lo scavamento entro la complessità, i chiaroscuri, ambiguità e mediocrità etico-personali; ma anche l’inesauribile ricerca di panorami, spunti, tecniche. Ma anche storie e rapporti umani. Tutto ciò che lui era in grado di far entrare nella sua arte.
In tal senso era un infaticabile viaggiatore; come Ulisse volle farsi legare all’albero maestro di una nave investita da una furiosa tempesta, per poterla descriverla “dal di dentro”. Sapeva trovare ardite soluzioni tecniche per dare cromatismi originali che rispondessero alla sua percezione della marine, delle navi in bilico da naufragio e in guerra.
Il regista accompagna questo scavare entro la personalità piuttosto cisposa e scostante, che spesso si esprimeva in insopportabili grugniti. Tuttavia sapeva trovare cifre di umanità attorno a lui, per esempio  in pittori di cui lui apprezzava il talento, come lo sfortunato e collerico Benjamin Haydon.
Benché la limitata e culturalmente rozza Regina Vittoria non apprezzasse il talento di Turner la sua maestria gli valse fin da giovane riconoscimenti anche accademici che gli assicurarono notorietà, e agiatezza: tuttavia non fu mai ripetitore di se stesso.
Solo il tipico e originale modo del regista di creare “comunità” profonda con gli attori, attraverso prove continue ed estenuanti, ben prima delle riprese,  poteva permettere al pur talentoso Timothy Spall, di scendere in questa così magmatica complessità e darne un senso unitario.
E anche qui solo in esteriore c’è il classico “film d’attori”, tipicamente british. In realtà Leigh accompagna la ricerca ininterrotta del pittore col presente sociale, come la povertà e il lavoro nelle miniere. E con la modernità, come ad esempio l’attenzione per la nascente tecnica fotografica e per la portata rivoluzionaria della ferrovia. E lo fa con uno scarto fotografico che restituisce con diafana chiarezza l’enorme ricchezza dei motivi sia grafici che tematici del pittore.
La fotografia è di Dick Pope, uno dei più grandi operatori inglesi viventi che passa dal documentarismo all’approfondimento tecnico innovativo, quando si rende necessario e dovuto alle rese drammatiche richieste dei vari registi. Ha già lavorato con Leigh ed è uno che sa cogliere con assoluta originalità il “dettato” del regista, facendolo diventare un’elaborata e personale qualità di illuminazione, una sorta di pittura nella pittura ma strettamente funzionale al complesso del film.
Il tutto vivacizzato dal montaggio adeguato di Jon Gregory, che ha già operato con Leigh e che spezzetta con varie e diverse angolature e sguardi – anche in pochi spazi e ristretti tempi –  i tasselli del puzzle dell’esistenza, gli umori, le ispirazioni, atemporalizzandoli. Così facendo permette che il nostro sguardo sia unitario e complessivo: dall’opera alla vita e ritorno. Senza  che prevalga un atteggiamento pettegolo-inquisitorio: ma nemmeno facilmente assolutorio.
Il complesso della personalità che emerge è decisamente umano: ma potente e di puro genio.

Francesco “Ciccio” Capozzi