Il film: Ti ricordi di me?

Ti ricordi di me locRoberto, cleptomane, e Bea, narcolettica con tendenza alla smemorizzazione, s’incontrano, si amano, in mezzo a difficoltà e ricadute.
Il film (ITA, ‘14) è tratto dalla commedia omonima di Massimiliano Bruno, attore, regista e sceneggiatore di cinema, che in teatro ha avuto un suo successo, con gli stessi attori: Ambra Angiolini ed Eduardo Leo, che, oltre ad essere anche regista e sceneggiatore del film, comincia ad essere un volto costante ed emergente del cinema italiano e anche di tv.
Qui tra l’altro Leo è stato sceneggiatore insieme a Paolo Genovese, a sua volta fortunato regista e sceneggiatore del nostro recente cinema.
E anche il regista del film, Rolando Ravello, “nasce” come attore colto sia di teatro che di cinema. E lo stesso Bruno ha collaborato con Ravello nella sua prima regia (“Tutti contro tutti”, ‘12).
Insomma è un Italian Pack di attori, sceneggiatori, registi che tra loro si scambiano ruoli e collaborazioni; e non solo nell’ambito del genere della commedia: Ravello ha lavorato pure in Diaz.
E anche quest’idea di mettere su pellicola una commedia già rodata a teatro, fa capire come attraverso  le interazioni tra i diversi segmenti dello spettacolo questi talenti le occasioni creative se le creano sperimentando. Nonché provando su terreni nuovile loro professionalità. Non aspettando la chiamata dei produttori.
Portare al cinema un testo teatrale può avere ricadute positive: la più importante riguarda gli attori. La continua prova sul palco mette in moto un’alchimia profonda tra loro che da scioltezza e sicurezza ai tempi di battuta nella rappresentazione, benché interrotta dai ciak. Ne da quell’intimità di configurazione nei piani di ripresa che aiuta molto.
E qui i due protagonisti funzionano alla grande: c’è grande eleganza e sveltezza nel passare da uno stato ad un’altro, dando spazio a battute e situazioni, talvolta azzeccate ed esilaranti.
D’altra parte la tentazione di seguire meccanicamente lo spartito teatrale, già ben rodato, può essere di nocumento al film che ha una ”grammatica” e dei linguaggi diversi; deve tener conto di tempi e spazi necessariamente più dilatati.
In questo la decisione di affidarsi ad un regista altro è stata saggia. Regista, peraltro, che, provenendo dal teatro, sa ben apprezzare una sinfonia di attori.
E oplà!, ecco come il miracolo è riuscito. Il film è divertente; e, come si dice, fa riflettere.
Il diverso, il patologico, possono avere una loro profonda dignità di sentimenti. Si tratta di avere la capacità di ascoltare e “accompagnare” attraverso l’affetto i passaggi e avere, continuare ad avere fiducia che, pur non “guarendo”, si può arrivare a convivere con queste problematiche.
Anche perché i cosiddetti normali hanno (abbiamo) tutti le loro patologie. Inoltre le due personalità, e il “coro” attorno, hanno tutti dei profili delineati con cura, che vengono puntualmente messe in luce dai dialoghi.
E non mi riferisco solo alla Angiolini e a Leo, ma, ad esempio, a Paolo Calabresi, il cognato di Roberto: fa da spalla a Roberto e funziona splendidamente, con compostezza ed efficacia, riuscendo molto divertente: toccando la farsa, alla Totò, per intenderci, ma ritraendosene sempre quell’attimo prima, per ritornare ad una piega di pseudonormalità.
E così l’Angiolini è veramente egregia e convincente nel passare da uno stato ad un altro, sempre con eleganza e divertita complicità.
Se tutta l’impalcatura narrativa e perfino battutistica funziona, ciò è perché c’è un egregio, preciso e non appariscente lavoro di montaggio cinematografico, che è stato affidato a Clelio Benevento, uno dei nostri più bravi ed attenti.
Benevento fa concentrare l’attenzione sulle azioni e i dialoghi dei due, spezzettandole e intervallandoli; facendo mutare il punto di vista, che comincia con quello di Roberto, poi continua con l’altro, usando il copione teatrale come traccia per un percorso  che poi diventa comune.

Francesco “Ciccio” Capozzi