Il film: The equalizer – Il vendicatore

The equalizerIn una Boston per niente intellettuale e trendy si aggira Bob, operaio, lettore di libri dalla vita iperordinata, ma dal passato oscuro. L’incontro con una ragazzina da salvare lo rigetta nella mischia.
Antoine Fuqua è il regista di questa vicenda di violenza urbana, di cui Denzel Washington è la star, e anche il produttore.
Si vede che tra i due c’è una solida intesa professionale: con lo stesso regista l’attore ha ottenuto uno dei suoi due Oscar  (“Training day”, ‘01). Il film (USA,’14), ha una durata insolita (131min): ma tiene botta, non stanca.
Il regista ha impresso un ritmo veloce e coreografico alle frequenti scene d’azione: egli si è formato sui video musicali, che hanno un senso narrativo particolarmente veloce e compatto nello stesso tempo.
Non a caso il montatore del film, John Refoua, è uno che, oltre ad aver già lavorato con Fuqua, ha espresso il meglio di sé con “Avatar” (‘09) di James Cameron, col quale ha vinto l’Oscar, insieme allo stesso dotato direttore della fotografia Mauro Fiore, (di origine italiana, ma naturalizzato USA), sia del film di Cameron che di questo.
Insieme, grazie alle scelte del regista, hanno fatto qui un lavoro di alto profilo tecnico-espressivo, perché “spezzano” la narrazione con infiltrazioni ottiche e cromatiche molto veloci ed efficaci, che animano le scene di violenza, che sono concitate, e spesso anche feroci, sempre sviluppate con logica e chiarezza narrativa, composizione e scomposizione ritmica di movimenti, pur se sempre immersi in una dimensione diparticolare eleganza.
Non c’è, o almeno ce n’é poco, e lontano dalle scene madri, di ralenti (rallentatore), che ormai è diventato un vezzo espressivo, spesso ridondante.
C’è senso coreografico e una mistica degli spazi: un legame strettissimo tra l’uso espressivo degli spazi attraversati dai personaggi, e la loro resa in senso dinamico. Qualcosa che richiede una davvero alta professionalità cinematografica.
Ma tutto ciò, e altro ancora sui livelli tecnico-espressivi, sarebbero delle espressività prive di emozioni: degli esercizi di “ginnastica” tecnica vuoti di anima. Ciò che fa la differenza è la presenza, forte e carismatica, del suo protagonista, soprattutto; ma anche del principale “cattivo” (l’attore Marton Csokas), col quale Bobby tenta addirittura un approccio che cerchi di dare delle motivazioni psicologiche al suo fare crudele.
Solo dei personaggi ben costruiti potevano “permettersi” delle variazioni sul tema così divaricanti dallo svolgersi di un normale film d’azione, senza rendersi ridicoli o affogare lo spettatore nella noia. Infatti essi provengono da una Serie tv degli anni 80, da cui Washington ha tratto la sofferenza sottotraccia che accompagna la repulsione del suo passato che, tuttavia, continua a vivere in lui.
Risponde a questa crepuscolarità che invade il suo presente con una vita ordinaria da workingclass, in cui è tutto previsto e scandito con un’abitudinarietà che gli fa da scudo, compresa la lettura, cui si dedica con metodica cura e piacere.Tranne che con  sonno, che tarda a venire.
Ma è un vivere lontano da ciò che era il suo passato, verso cui è critico, ma non autodistruttivo; e che lo rende comunque attento al mondo circostante: in qualche modo responsabile e disposto a farsi carico dell’altrui sofferenza.
Solo un attore dotato di una sensibilità e di un’intelligenza autorale, allo scoccare del suo 60esimo compleanno come Washington poteva dare vita ad un personaggio così elusivo, ma concentrato e presente, nello stesso tempo, in grado di trasformarsi in una micidiale e credibile macchina da guerra, senza perdere la sua umanità.
Pure la scelta di Boston è particolare: città tutto sommato piccola, è raffigurata come un teatro di guerra, in cui c’è poco che richiami la cultura di cui è un centro.
Ma la dimensione è quella giusta: adeguata agli incontri. Certo, non è un film che ha pretese cinefile, anche se è citato spesso Sergio Leone: ma è ben fatto, e ha più di un motivo per intrigare.

Francesco “Ciccio” Capozzi