Il film: Still Alice

still_aliceAlice è una docente universitaria di conclamata intelligenza, personalità e cultura, felicemente circondata da una famiglia amorevole. A 50 anni scopre di avere un Alzheimer precoce.
Come è stato detto, fare un film sulle malattie invasive e/o mortali, è particolarmente insidioso: da “Philadelphia” in poi è una specie di costrizione emotiva, potrebbe essere un vero e proprio ricatto. Ma è una sfida da porsi; anche perché, nonostante le apparenze, ha una forte carica d’impegno sociale.
Tutto ciò che rompe con la levigata superficie imbellettata delle apparenze hollywoodian-televisive sembra che sia fuori registro. Perché è qualcosa che non può agevolmente essere condotta in quegli schemi tradizionali narrativi, ma che affronta la vita: quella particolare forma di esistenza da cui noi, se possiamo, ritraiamo lo sguardo. Ce ne disinteressiamo, perché non vogliamo star male, a meno che non colpisca persona a noi vicina. Ma che sappiamo esserci: e ci costringe a porvi attenzione.
Perciò, per evitare il ridicolo, la sforzata enfasi grottesca, che genera solo comicità involontaria, ecco che deve soccorrere una sceneggiatura che suggerisca uno “sguardo” particolare, che ci accompagni nello svolgersi della malattia.
La base di questo film è un libro, pubblicato anche in Italia, con lo stesso titolo, di Lisa Genova, scrittrice USA, che ha descritto le vicissitudini della nonna, cui era molto legata.
Il percorso di straniamento da sé, operato dalla malattia, è sviluppato, nella prima parte, da un’intensa soggettivizzazione. La persona sana, tra l’altro provvista di non indifferenti mezzi culturali, avverte dentro di sé il progredire del morbo: lo subisce con un’acuta, quanto impotente consapevolezza. Le battute di Alice sulle parole appropriate, che prima le venivano naturali e copiose, che “si dissolvono” lentamente, ma implacabilmente dentro la propria memoria, sono di un’efficacia straziante.
E tutta quella bella e articolata sequenza sulla villa a mare, è il punto di rottura dell’equilibrio: da quel punto in poi il declinare della malattia sarà inarrestabile. È giocata, anche cromaticamente e spazialmente – il suo definirsi col mare – molto sapientemente sui due livelli della vita, ormai in incombente trasformazione nella protagonista: da un lato le protettive memorie affettive, dall’altro lo spettro dell’assoluta impotenza.
Ma il dramma è che tutti hanno una loro esistenza, fatta di famiglie autonome, impegni di lavoro: nessuno può dedicarle cura e attenzione. L’unica che le resterà vicina è la figlia artista, quella che non accettava “i consigli” materni, che in forma mascherata esprimevano il suo subliminale ricatto affettivo e mancanza di controllo sulla giovinotta, mentre con l’altra, più formalmente obbediente, ma nel momento topico la più lontana, è un continuo rincorrersi col telefonino.
E qui prende vita una dimensione narrativa che dialettizza la malattia: la mette in confronto con una presenza che non solo non le è aliena, ma permette di penetrare all’interno di questa tetra prigione che era diventata la mente della madre. E l’unica possibilità è data dall’affettività.
È questa l’unica vera, profonda dimensione di dialogo che continua a far vivere quella parte di anima che, a dispetto della malattia è «ancora Alice», come ben sintetizza il titolo.
La sequenza della favoletta al cui finale Alice pronuncia l’unica parola di sintesi e di significanza reale, che la mette in contatto con la figlia, e con noi, cioè «amore», è costruita con un gioco di montaggio e attoriale da far accapponare la pelle.
Julienne Moore, l’attrice protagonista, è di una spaventosa bravura essenziale; ma anche Kristen Stewart, la figlia, ormai lontana dagli algori adolescenziale di “Twilight” mostra assoluto talento e alta professionalità.
I registi del film, Richard Glatzer e Wash Westmoreland, che sono una coppia anche nella vita, hanno accompagnato questo canto lirico di sofferenza con estrema sensibilità, delicatezza ed efficacia.
Francesco “Ciccio” Capozzi