Il film: Quel che sapeva Maisie

Quel che sapeva MaisieMaisie è una bambina sballottata da genitori distratti, più che disamorevoli. Sembra che leghi con la babysitter e col nuovo marito della mamma.
Il film è del 2012 (USA), ma solo ora (2014), grazie ad una società coraggiosa, come la Teodora Film, ha trovato una distribuzione.
Eppure si tratta di un film non solo bello ma singolare; tratto dal racconto di Henry James del 1897, il cui titolo italiano è l’esatta traduzione, “tradisce” assai  positivamente la sua matrice, ma non il suo spirito profondo.
Innanzitutto lo ambienta nella New York contemporanea; si sottrae allo stile delle opere cosiddette dell’ultimo James perché trasforma la parola letteraria in sguardi e movimenti semplici.
Le lunghe, elaborate riflessioni della pagina jamesiana sono psicologicamente spesso assai profonde, ma talvolta involute e faticose da seguire. Determinano uno stile molto personale, fatto di riecheggiamenti, illuminazioni, che seguono e descrivono con attenzione spasmodica il “farsi” dei pensieri, spesso vario, movimentato e perfino contraddittorio, all’interno dei comportamenti anche semplici dei personaggi.
Quindi il lavoro delle due sceneggiatrici, Nancy Doyne e Carroll Cartwight, non molto prolifiche, è stato di notevole portata e difficoltà. Hanno ridotto le sequele di parole letterarie in gesti e movimenti sui quali i due registi Scott McGehee e David Siegel hanno lavorato espandendo il punto di vista della bambina, che è il vero protagonista del film.
Cioè: non è semplicemente la bambina ad essere al centro della narrazione; ma tutto è come filtrato dai suoi occhi. Tutto è reso chiaro, o non chiaro, a partire da lei che osserva il mondo con affettuosa partecipazione, piena d’amore e di aspettative.
In particolare per una madre che “sente” essere diversa – è un’affermata, ma non più giovane, cantante rock che sfacchina  per restare a galla – i cui atteggiamenti spesso umorali e superficiali sono accettati e sostanzialmente giustificati con quella olimpica, generosa tenerezza, tipica dei bambini.
Ma è la tata Margo, l’attrice Johanna Wanderham, che la sa prendere con dolcezza e affetto: e in cui Maisie riversa la sua tenerezza.
Il film si libra su questa delicatezza di tratti narrativi attraverso l’uso del montaggio, affidato a Madeleine Gavin, che segue le volute dello sguardo della bambina nel suo girarsi intorno. La montatrice, che ha lavorato anche nel documentario vincendo premi, porta qui il senso analitico della velocità e concentrazione di visione, i cui tempi non enfatizzano o caricano più di tanto l’irrequieta, ma egoistica ricerca dei genitori di pretesti per “scaricare” le proprie responsabilità, ma ce li pone con obiettiva e inchiodante chiarezza.
La vita sia privata che della città di New York è ritratta dalla fotografia, di Giles Nuttgens, che mette in essere un approccio non invasivo: la bambina vive questi spazi con una luminosità accogliente, né zuccherosamente pastellata, né amorfa ma tale da segnalarne l’intima vitalità.
La scenografia dell’esperta e duttile Kelly McGehee fa sì che gli spazi ruotino attorno alla protagonista, senza che lei ne sia intimidita: risultano a sua misura.
Il testo di James, all’epoca, era dirompente, perché poneva in  discussione la dialettica vittoriana della famiglia tradizionale, che era un tabù, ipocritamente indiscutibile. Ma anche ora, perché scevro di sentimentalismi facili e ruffiani, il film esprime un messaggio aperto: l’amore è di chi lo nutre con fatti, non di chi lo dichiara solo verbalmente, quale che sia il suo ruolo istituzionale.
Perciò il personaggio più complesso e ricco di sfaccettature, di squilibri e conflitti è quello della madre, affidato a Julianne Moore che lo rende con una dolente consapevolezza, perché combattuta dalla sua natura di narcisista e immatura, ma in grado di riconoscere la natura dell’affetto della figlia per la tata.
E ciò porta alla citazione, felicemente conclusiva e liberatoria, nonché azzeccata, del sottofinale, direttamente tratta da I quattrocento colpi (1959) di François Truffaut.

Francesco “Ciccio” Capozzi