Il film: Pérèz

Perez locandinaDemetrio Pérèz è un avvocato d’ufficio: una specie di “ultima linea” della professione legale.
A contatto con malavitosi, sfigati, pentiti di ogni risma, eterni innocenti, solo e sfiduciato ha sviluppato un acuto senso dell’ineluttabilità. Ma la figlia Tea è persa dietro a un ambiguo rampollo di camorra e deve difendere un machiavellico pentito.
Edoardo De Angelis è il regista e cosceneggiatore di questa pellicola (ITA, ‘14), insieme all’attento e dotato Filippo Gravino.
Il regista è alla seconda opera: la prima, “Mozzarella Story” (11), pur rivelando talento e originalità, non aveva convinto pienamente. Questa volta gli esiti sono assolutamente positivi: è un’opera compatta, tesa e potente.
A partire dall’ambientazione: quella del Centro Direzionale di Napoli. La cui resa scenografica è invasiva, in quel suo apparente rincorrersi delle linee geometriche, in una ricerca perseguita con coerenza architettonica da scuola, di una razionalità moderna che cozza violentemente con la complessità delle passioni e degli interessi messi in campo dai personaggi.
Già Pappi Corsicato (“Il seme della discordia”, ‘08)aveva tratto da quei posti ispirazione: ma prevaleva l’aspetto astratto e surreale: in un certo senso pittorico.
Qui invece grazie all’uso narrativo di quegli spazi, i personaggi sono portati a viversi in una doppia stratificazione di comportamenti : da un parte l’aderire ad una società civile con le sue leggi, i suoi ritmi; dall’altra la componente barbarica e selvaggia, che toglie la maschera a quella dipintura superficiale  di civiltà, ed emerge nella sua violenza primordiale.
Il regista e lo scenografo del film, Carmine Guarino, hanno usato la doppia ambientazione del Centro Direzionale e di Castel Volturno, nella sua parte più dirupata e primitiva, per dare vita a questo contrasto, che non è solo visuale, ma soprattutto di dimensioni spirituali.
Ed è il fuoco, strumento di annullamento del cadavere, che chiude e salda la complessità attraversata dai protagonisti. Che sono tutti carnefici e vittime.
Il film fissa questi evidenti stridori in un controllo tematico dell’insieme, molto forte.
L’avvocato deve fare i conti con la figlia, la forte e sensuale Simona Tabasco,  ch’esce pazza, letteralmente, per questo erede di camorra, il Marco D’Amore di “Gomorra. La serie”,  tenebrosamente ambiguo e maliosamente tentatore.
Ma il padre sa che quello è ciò che è: deve solo fare uscire la sua natura reale allo scoperto. E qui entra in gioco il camorrista astuto e doppiogiochista, il sottile e perfido Massimiliano Gallo, finto pentito che si serve cinicamente delle fragilità dell’avvocato per recuperare un malloppo multimilionario: in cambio lo libera da quel genero indesiderato.
Questo smascheramento avverrà nel buio spettrale della Pineta di Castel Volturno: e sarà la rivelazione che il padre attendeva per la figlia.
Ogni personaggio è costruito con una forte dose di ambiguità: ma anche di caratterizzazione. Sono pochi e gli sceneggiatori li hanno approfonditi con molte sfumature.
Luca Zingaretti, anche produttore del film, è quello che ha più respiro.
Lasciato  dalla moglie, che non appare mai, sembra uno sconfitto dalla vita: ricorda “l’Idiota” di Dostoevskij, ovviamente senza alcun afflato metafisico. In un qualche modo partecipa a tutte le mediocrità della vita, che egli incontra continuamente, e che subisce all’apparenza passivamente: mentre invece ciò avviene con un enorme senso di intima comprensione da parte sua.
Talmente forte e completa che lo blocca, lo subissa; gli impedisce ogni semplice reazione: egli di fronte agli assalti della vita ha quasi perso la sua identità. Incita con violenza i due rapinatori a sparargli in testa (come il Mel Gibson del primo “Arma letale”, ‘87).
Ma questa improvvisa consapevolezza lo ha liberato. Lo ha rimesso in piedi di fronte alla vita: ne riceve una ferita che resta visibile  per tutto il film come simbolo.

Francesco “Ciccio” Capozzi