Il film: Lovelace

lovelaceLinda Boreman, in arte Linda Lovelace, diventa la diva del porno degli anni ‘70; ma sono forti i conflitti che la attraversano…
Nel cinema di quegli anni  apparve come una meteora, ma segnò profondamente l’hardcore. Il suo unico film completo fu  Gola profonda  (1972) di Gerard Damiano, considerato una specie di maestro di questo tipo di film, e segnò un’epoca, quella della cultura della piena liberazione sessuale, tipica di allora.
Da portarsi anche attraverso un cinema porno che cercava di coniugare ironia, e perfino satira politica e sociale, con le rappresentazioni di sesso esplicito.
Ma secondo quanto lei stessa ha detto in un famoso libro, Ordeal, pubblicato negli anni ‘80, e che ebbe un successo pari alla sua passata esperienza di pornostar,  fu il marito a imporle di fare l’attrice porno. Anche con la violenza. Come violenti furono i rapporti con la madre, cupa integralista religiosa.
Il film (USA, ‘13) tenta di esplorare questa complessità, ancorché  i due sceneggiatori,  Merritt Johnson e Andy Bellin, si sono basati su una biografia sull’artista di Eric Danville. Che però, a sua volta fa proprie unicamente le ragioni della Lovelace, diciamo così, redenta …
Come colei che riguarda un passato di cui si pente e che vorrebbe cancellare, essendo poi divenuta un’integerrima Signora Marchiano, con figli e marito; nonché ritornata all’esaltazione osannante di quei valori religiosi, da cui si era allontanata e  la cui versione più oppressiva era impersonata dalla terribile genitrice.
I due registi, Rob Epstein e e Jeffrey Friedman, danno vita ad un rappresentazione che riesce ad essere molto attenta al contesto familiare: al marito-manager Chuck (Peter Sarsgaard) e soprattutto alla madre, un’irriconoscibile e bravissima Sharon Stone: anzi, si può tranquillamente affermare che questa è una delle più belle, intense e forti performances della sua altalenante carriera.
E anche a quello ambientale e  sociale. Interessante è la rappresentazione dell’ambiente produttivo attorno a quel film: si fa anche cenno alla figura di Damiano; ma non emerge per niente la ricca e a suo modo consapevole personalità di regista.
Molto efficace e vivido, benché breve, ad esempio è il ritratto di Hugh Heffner, il fondatore di Play Boy (l’attore James Franco, che spesso ha lavorato per i due registi), che fu un suo fan.
Ma sono carenti sul personaggio di Linda, nonostante che l’attrice Amanda Seyfried, oltre ad avere un impeccabile phisique du ròle, sia caratterizzata da ingenua sensibilità.
La Lovelace, poi deceduta nel 2002 a soli 53 anni per un incidente d’auto, a distanza di anni si presentò sempre e solo come una vittima.
E, sicuramente, il sordido, brutale e meschino marito era un carnefice; e la conflittualità con la madre era così devastante che la rese vittima dell’insieme.
Ma, nonostante ciò la sua presenza sullo schermo, in quei due film – ovvero il primo e un altro semiapocrifo costruito con gli scarti del primo – la caratterizzarono come una presenza, quasi un’icona, ben diversa da come poi si rappresentò: combattente contro il porno e la violenza domestica.
Il limite grave del film è di non affrontare nemmeno in parte questa contraddizione, non solo di artista, ma anche esistenziale.
Voglio dire: ci sarà pure stata una ragione per cui milioni di spettatori, anche a distanza di anni, a dispetto di ciò che l’attrice ha ritenuto di dover correggere di sé e al saldo delle comprovate ragioni che l’hanno portata a farlo, rimanevano come abbagliati da quella presenza ingenuamente, ma così intensamente, giocosamente e naturalmente sexy.
Gli autori glissano bellamente su questa importante componente del fenomeno: ma così facendo riducono il film un’incerta e ambigua storia di violenza familiare.
Che difatti non ha convinto né critica né pubblico.

Francesco “Ciccio” Capozzi