Il film: In grazia di Dio

In grazia di DioA Giuliano (Lecce), Adele, una combattiva donna, è costretta a mollare la fabbrichetta di proprietà, per dedicarsi, lei, la sorella, la figlia e l’anziana madre alla campagna.
La storia produttiva del film è molto interessante. Il regista, Edoardo Winspeare, nato in Austria, cognome inglese, ma salentino doc, ha realizzato questo film (ITA, ‘14) a km 0: è riuscito a mobilitare un intero paese attorno alla storia di Adele, la protagonista del film, e delle altre donne. E ha fatto un bel film.
Non avendo molti soldi, appena 600mila euro, si è inventato il Pacco Baratto, di generi agricoli di qualità, prodotti da società cooperative locali, per sopperire a tale limitatezza, per integrare i pagamenti dei figuranti: praticamente tutti i cittadini giulianesi. Li ha convinti e coinvolti, perché la vicenda parlava di loro.
Non è una situazione facile, quella di Adele: donna grintosa e diventata dura, ha dovuto inventarsi, prima, un profilo di imprenditrice, lei e il fratello, perché il marito è un criminale  coatto più sfigato che cattivo, ma inaffidabile.
Poi, per potere semplicemente sopravvivere, è dovuta tornare a fare la contadina. Come facevano i suoi lontani parenti, su un terreno incolto e abbandonato: non è una “regressione felice”; non c’è niente di bucolico.
Voglio dire: non è un’intellettuale urbana pretenziosa, che, innamorata di un’ispirazione new age, s’inventa un ruolo velleitario che non le appartiene. È una tizia soda e realista che guarda in faccia alla realtà, a differenza, ad esempio, della sorella che vorrebbe fare l’attrice, inseguendo l’Ozpetek di turno, il regista che ha fatto tornare di moda, cinematograficamente, quelle terre.
Ma il suo personaggio di donna matura e consapevole, ha molte sfaccettature. È evidente che in lei vi sono varie componenti, anche contrastanti: da una parte la forza; dall’altra, la tenerezza di madre e di figlia, ma anche una sua energica e affascinante femminilità, messa in luce dal timido Stefano, interpretato da Gustavo Caputo, che è anche uno dei produttori del film, innamorato di lei da sempre.
L’interpretazione che ne dà Celeste Casciaro, che nella vita è la moglie del regista, tiene insieme i diversi aspetti, con sofferta identità: benché in condizioni deboli, non si lascia abbattere; e trova nella campagna il modo per far fruttare i terreni.
Molto faticoso lavoro, non c’è dubbio; ma anche molta intelligente mutualità collettiva. Si scopre, facendo facendo … che “conviene” essere solidali e cooperativi, senza fare tirate: semplicemente scambiando e barattando i reciproci frutti del lavoro. Ricorrendo anche, evidentemente, alle contribuzioni di stato: ma senza divenirne schiavi o speculatori. È un reticolo di attività che si costruisce agendo; ma non ci si dimentica mai dell’identità delle persone.
Il regista usa toni fotografici sempre intelligentemente in bilico tra documentarismo crudo e poesia. In questo il contributo del direttore della fotografia Michele D’Attanasio, che ha sviluppato la sua ricca esperienza nel documentario/cinema di realtà, è stato raffinato e di grande valore aggiunto.
Vi sono dei “passaggi” all’interno dei brulli panorami salentini che hanno il sapore e l’incanto di percorsi dell’anima: ma senza che il regista si metta su a declamare. Nascono come dall’interno delle complessità di tutti personaggi del film: essi costruiscono percorsi di unità affettiva che s’immergono nel paesaggio che dà eco, luce e orizzonte alle ricchezze d’amore, in loro presenti e riscoperte.
Amore e rispetto reciproco che sono riaffermati attraverso il lavoro e la solidarietà.

Francesco “Ciccio” Capozzi