Il film: Hungry hearts

hungry_heartsMina, italiana, e Jude s’incontrano a New York, si piacciono, si sposano. Ma il rapporto col primo figlio, da parte di Mina è a dir poco asfissiante, a causa del suo credo ipervegano.
Saverio Costanzo ha diretto e scritto questo film (ITA, ‘14), traendolo da un romanzo preesistente di Marco Franzoso. Il suo titolo era “Il bambino indaco”: volendo significare un piccolo con un destino e poteri strabilianti; bimbo, e qui si va nel nucleo narrativo del romanzo ( e del film), che va protetto a ogni costo contro tutto e tutti. Anche se questa protezione cozza contro ogni buon senso ed elementare esigenza fisiologica.
Infatti si parte da presupposto che “ogni” cosa che viene dall’esterno è portatrice di malattia, di avvelenamento: sia essa aria, cibo, medicinali. In particolare è proprio il rapporto con la medicina tradizionale ad essere sotto accusa. Partendo dall’indimostrata tesi per cui la “mamma sente” ciò che fa bene e non, si bandiscono diete, cure. Perfino la stessa visita del medico, che viene considerata come un momento di violenza intrusiva.
La significativa qualità del film è nel tipo di sguardo adottato dal regista. Noi assistiamo all’impadronirsi della coppia di questa che è chiaramente una distorsione patologica, portata da lei.
Ma non c’è nessun grido di scandalo: non “si alza la voce”, enfatizzando questo comportamento malsano. Ma lo si osserva, con scrupolosa attenzione, sì, ma restando a fianco dell’area sentimentale con cui i due ragazzi manifestano il desiderio di costruire un’occasione d’amore con al centro l’amore tra loro  e il figlio.
È su queste premesse che si distingue, prima confusamente, poi via via più precisamente il piano inclinato di quella che è, a tutti gli effetti, un’ideologia distruttiva. E che alla fine, poi, occuperà tutto il quadro.
È un percorso ricco di sfumature e di sentimenti. Né vuole essere una specie di denuncia su queste pratiche, benché lo sia pure. Al regista interessa la dimensione dell’insieme: delle ragioni che potrebbero aver portato questa ragazza, peraltro sensibile e intelligente, a quest’atteggiamento così estremo.
L’ambientazione di New York risulta fondamentale, perché la megalopoli, di cui avvertiamo la presenza attraverso il continuo, persistente rumorìo di fondo, è fortemente isolante.
La madre ha un’esperienza  familiare infelice, perché orfana. È evidente la sua necessità di riversare la sua esigenza di protezione sul figlio. Il regista utilizza questi elementi per costruire non un giudizio, ma un’atmosfera psicologica. Potente, pervasiva e, contemporaneamente, distorcente e distorta: c’è un piano di ripresa in cui gli angusti spazi vitali dell’appartamentino vengono grottescamente deformati attraverso una sorta di effetto stroboscopico.
È chiaro che attraverso questa metafora siamo entrati nella patologia. Né è diversa l’ambientazione innevata della casa isolata della madre di lui, in cui Jude ha pensato di trovare riparo per salvare il figlio dall’inedia. Anch’essa è una casa da incubo, con tutti quei trofei esibiti di poveri alci massacrati e quei ninnoli sparsi: ma almeno ha più spazi. Ma la madre riesce a riprendere il figlio, per cui si rende necessaria un’ultima estrema soluzione, di cui si fa carico la coriacea nonna.
È una partita tra donne, verrebbe da dire, in cui i maschietti sono delle delicate ma inoffensive comparse. Hanno coraggio, forza e, soprattutto, nel bene e nel male, “visione”; cioè vanno al di là di quella che è la piatta apparenza.
Il film, in questo senso non giudica: espone con attenzione, rispetto; ma soprattutto con adeguato senso della ricerca interiore le ragioni che stanno al di là e al di sotto delle motivazioni banali esibite.
Certo, gli attori sono giusti (la Rohrwacher e Adam Driver sono stati premiati a Venezia ‘14): ma loro hanno saputo entrare nell’universo narrativo stabilito da Costanzo.
Una nota particolare di plauso al direttore delle foto Fabio Cianchetti: il suo sperimentalismo cromatico – che l’ha portato a collaborare con maestri come Bernardo Bertolucci, ma anche suo fratello Giuseppe – gli ha permesso di illuminare una New York tetra e oppressiva. In cui perfino le sequenze sul mare hanno una affannosa valenza di ricerca dolorosa di affrancamento e di libertà.
Da rilevare anche il complesso e svelto  montaggio della bravissima Francesca Calvelli e le appropriate musiche di Nicola Piovani.

Francesco “Ciccio” Capozzi