Il film: Due giorni una notte

duegiorni_unanotteUn’operaia appena uscita da un esaurimento nervoso dovrà convincere una decina di suoi compagni di lavoro a rinunciare ad un bonus, per non farla licenziare.
Con i due fratelli registi-sceneggiatori del film (FRA-BEL, ‘14) Jean-Pierre e Luc Dardennenon è solo di scena la solidarietà. Ma, come si diceva una volta, è un cinema sociale, che non rifiuta il confronto le problematiche di questi tempi difficili: quelle che riguardano il lavoro, la disoccupazione.
Ma lo fanno con l’occhio esercitato di chi non va avanti a slogan, possano pure essere generosi; ma invece osservando le dialettiche della vita reale.
Esse portano una donna, sostenuta da un marito attento e solidale, a interagire con altri esseri umani: anche loro gente comune, lavoratori come lei, alcuni dei quali schiacciati dalla crisi.
Ebbene, lei farà in modo, solo proponendosi come persona dialogante con altre persone, di far loro cambiare idea. Mettendo in campo quel sentimento strano e rivoluzionario che si chiama solidarietà. Che non è pietismo, ma comprensione viva e partecipe che si vuole avere di ciò che è l’altro con cui si vive e a cui si è accanto, specie nelle situazioni di lavoro. In cui la condivisione diventa modalità di vita. Certo non in tutte.
Non c’è alcuna mitizzazione di quella che una volta veniva chiamata “classe operaia”. In questo l’analisi dei Dardenne, che come Ken Loach, vengono dalla vecchia scuola di pensiero di sinistra militante, tiene conto dei reali mutamenti oggi in atto.
È un insieme di individui che non riescono nemmeno a ragionare come classe: tanto sono parcellizzati e divisi. I registi, ad esempio, li fanno abitare quasi tutti in singole casette a schiera: è una metafora visiva, ma di pregnante verità sociologica.
Ognuno pensa isolatamente di essere al centro  della lotta per la sopravvivenza; e non invece, restando in questa ottica, una singola pedina sacrificabile e intercambiabile.
L’andare della ragazza è su vie piatte e piene d’incroci: certo lo scenario è una cittadina di provincia, ma è usato con grande semplicità e naturalezza dal cinema dei Dardenne. Sembra banale e perfino sciatto: ma non è assolutamente così.
Il montaggio, di Marie Hélène Dozo, e la fotografia di Alain Marcoen, che hanno già lavorato coi Dardenne (soprattutto il secondo), ci indicano la totale immersione in quel vivere, e in cui la dimensione psicologica di disperazione e di volontà di lotta si stempera, muta colore e toni sul viso della protagonista mentre attraversa l’universo ordinario della quotidianità.
È una grande lezione di cinema, giocata nei sintagmi dell’apparente realismo. In cui i campi e i movimenti, scandiscono il procedere della quète.
La protagonista ha pace solo nell’auto col marito, prima, e con l’amica, dopo: tutti e due momenti accompagnati dalla musica. In particolare, liberatorio è il rock di Van Morrison, cantato a piena gola da tutti: è un momento in cui la speranza torna a illuminare l’esistenza.
Ed è su questa linea il finale. Colpisce molto, per la sua efficacia del tutto antidivistica, l’interpretazione di Marion Cotillard, attrice Premio Oscar per l’interpretazione di “La vie en rose”. Grande star internazionale, senza nessuna protezione, percorre, smagrita, smunta e aggobbita, vestita di due sole magliette, un identico paio di jeans e scarpe per tutto il film, le tracce di una disperazione che incombe in casa, in cui vorrebbe ritirarsi, al piano superiore, per dormire/morire.
È il marito e l’amica, che la fanno “scendere”, in senso reale e metaforico, per andare “in mezzo alla strada” per misurarsi col mondo, le persone, e i loro cuori: alcuni dei quali riesce a muovere.
Infatti la battuta più forte che lei pronuncia al suo caporeparto, che la vuole fuori a tutti i costi, perché “debole” è: «Tu non hai cuore»”.  Ed è forse questa la più efficace definizione di una dimensione di vita, che, all’insegna della globalizzazione e del consumismo, come “pensiero unico”, desertifica l’esistenza attorno a noi.

Francesco “Ciccio” Capozzi