Gli assassini della dolcezza

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Ho già avuto modo, in varie occasioni,  di scrivere su queste pagine del rapporto stereotipi, luoghi comuni, e rappresentazion della città di Napoli.
Voglio insistere su questo tema perché lo trovo di estrema importanza, in primo luogo perchè l’immobilità di pensiero corrisponde direttamente a quella immobilità di cui noi napoletani lamentiamo sempre in tutte le occasioni della nostra città.
Così com’è Napoli è veramente non più presentabile.
Libri, cinema, programmi televisivi, articoli sui quotidiani, spettacoli teatrali, non fanno altro che girare intorno ad un paio di luoghi comuni, come se Napoli fosse solo quello. Senza voler nascondere la testa come uno struzzo per non vedere la realtà, mi chiedo come sia possibile che questa maschera appiccicata sul volto della città non si riesca a toglierla, a distruggerla, al punto tale che sembra essere diventata il vero volto della Città.
Rappresentare una città significa ripensarla, significa costruire linguaggi sempre nuovi che interpretano realtà complesse; quando ciò non accade si contribuisce alla uccisione della città.
A Napoli le forme espressive – libri, teatro, musica, cinema, televisione ecc. – fatte salvo pochissime eccezioni, sono controllate e gestite da  “burocrati del linguaggio”
Sì! Burocrati del linguaggio, quei personaggi che nuotano in un mare di noia.
Quegli assassini della dolcezza, che muoiono aggrappati all’ultimo modello del loro telefonino.
Che hanno gli occhi ingialliti dall’invidia, lo stesso colore della pella dovuto alla bile che invade il corpo. Occhi sempre  fissi all’orologio.
Sono sempre ordinati. Sempre con le loro belle cravatte stirate, dai colori intonati alle camicie firmate. Sono gli stessi che si fanno venire le crisi esistenziali quando scoprono che la figlia si masturba di notte.
I burocrati del linguaggio, che sanno leggere le parole nascoste dell’arte e sono convinti che l’amore per loro non abbia segreti perché conoscono tutto di Neruda e anche della New Age.
Non c’è un’opera lirica che non abbiano visto, un artista che non conoscano.
Hanno la libreria stracolma di libri, si fanno il segno della Croce la mattina e la sera.
Ci scommetto: tanti di loro  pagano una donna diversa dalla moglie.
Sono sensibili, questi signori, molto sensibili, sanno vivere anche il sentimento della vergogna, la vergogna di dire che il loro padre era un operaio, rinnegando le umili origini e i sacrifici di chi li ha fatto studiare perchè inseriti nella Napoli bene o “alternativa”.
Intanto Napoli continua ad essere sommersa, cancellata, dalle rappresentazioni proposte.
Lo scrittore Raffaele La Capria disse che una città è viva se produce linguaggio: non solo parole ed esperimenti di parole, ma idee. Concetti, sogni, propositi, utopie, punti di vista, per raccontare se stessa interessando gli altri, e per capire la realtà degli altri attraverso la propria.
Si ontinua a scrivere su Napoli e di Napoli, senza far parlare la città, con un linguaggio impoverito, si disegnano stereotipi e si consolidano immagini di napoletani e della città, nei quali tanti di noi che la viviamo non ci riconosciamo più.
Una terribile immobilità creativa sembra aver attecchito come una malattia degenerativa il territorio creativo della città.
Dal mio punto di vista, l’artista, lo scrittore, il poeta dovrebbe avere  il  grande dovere morale  di rompere questo incantesimo, di far uscire fuori dal pantano il linguaggio e rappresentare con semplicità la complessità di questa Città, con qualsiasi mezzo ritiene opportuno.
Qualcuno a volte ci riesce, ma i burocrati del linguaggio sono sempre là e analizzano tabelle, controllano gli orologi, misurano i profitti, e alla fine chi si sforza di costruire qualcosa di nuovo, viene isolato perchè è rischioso per il nuovo dio: il Profitto.
(Foto: web)                                                                                                               Mario Scippa