Conversazione con Mario Scippa, il costruttore di illusioni

"Il costruttore di Ilusioni" di Mario Scippa

Com’è nato il salotto?

“Sono architetto e sono stato sempre attento alla forma, alla ricerca della bellezza; questo era il laboratorio di mio padre: qui faceva intagli in legno e restaurava mobili. E’ stato, praticamente, l’ultimo intagliatore di Napoli. Il salotto, forse, è nato col mio primo romanzo, ‘L’antiquario e il professore’: volevo raccontare un incontro tra il mondo dell’antiquariato e quello della parola. I due personaggi, lontanissimi per modi di essere, l’uno legato al pesante mondo degli oggetti, l’altro, invece, a quello leggero delle idee, perseguivano entrambi la stessa costante ricerca della bellezza e la volontà di trasmettere emozioni. A livello metafisico, dunque, l’antiquario e il professore vivevano la stessa vita, e si sono incontrati in questo non tempo, in questo non luogo, che io definisco zona di confine. Così, ho sentito l’esigenza di trasporre spazialmente l’esperienza letteraria; all’interno di una bottega in cui si vendono oggetti antichi, ho fatto entrare la parola scritta, cominciando a presentare libri di narratori prevalentemente napoletani, ma non solo”.

Come si racconta una città come Napoli?
“Da ragazzo mi interessavo di fotografia: cercavo di raccontare la città, senza cadere nello stereotipo. Tiravo fuori uno dei tasselli da aggiungere alla narrazione iniziata duemila anni fa con la colonizzazione greca, e che continua ancora oggi, perché Napoli è una città non conclusa. Il filosofo Walter Benjamin disse che Napoli è una città porosa, una città confine, dove tutto passa, e qualcosa rimane. E’ in continuo divenire: le prime migrazioni di popoli sono passate per Napoli. Il napoletano  è un misto di sangue, una miscela di normanno, greco, arabo … basta fare una passeggiata per i quartieri di Napoli per incontrare fototipi diversissimi, ma che parlano la stessa lingua, il napoletano, che a sua volta è un miscuglio di linguaggi. La città non è fatta da edifici e spazi urbani ma dagli uomini e dalle donne, e la sua espressione è la comunicazione attraverso i vari mezzi. Purtroppo, il linguaggio, oggi, sta subendo trasformazioni radicali, mutazioni  dovute al passaggio a Google; come osserva Baricco, il monosillabo  ‘link’ mette in relazione universi diversi. Napoli, colonia cumana e poi greca: è da dove veniamo, abbiamo origini mitologiche. Quando arrivarono i primi greci, i Micenei, sbarcarono prima ad Ischia; si avvicinarono poi, ma di poco, raggiungendo l’isolotto di Vivara vicino Procida, e di lì guardarono per tanti anni la costa, che vedevano come materializzazione di tutte le loro fantasie: il Vesuvio, il fumo della solfatara, i delfini che saltavano dalle acque del mare, la natura rigogliosa … Per loro era il confine del mondo.  La mia ambizione è raccontare il centro antico, il cuore della città, per capire che cos’è Napoli e come sia avvenuta la sua evoluzione morfologica e antropologica. Un’evoluzione che si è mossa nei vicoli: nei palazzi, dai bassi risaliva fino ai piani alti. La stratificazione architettonica diventava quasi una stratificazione  sociale”.
Cos’è il confine?
“Nei confini non c’è niente di concluso, tutto è in divenire. L’idea di zona di margine, di confine, mi ‘catturò’ nel ’92, quando  misi insieme sei fotografi in una mostra che si chiamava “Confini”. Poi, abbandonai la ricerca, ma, evidentemente, si sedimentò nel mio inconscio, perché quando iniziai a presentare libri, ripresi quell’idea, ormai maturata. Avevo l’esigenza di conoscere narratori che raccontassero Napoli scoprendone il linguaggio, ma da una zona di margine, sia fisico che metafisico. Amo il linguaggio, indagare sulla parola; ad esempio, il linguaggio dell’eros è quello che si adatta a tutte le situazioni, o finisce per condizionarle. Come pure il linguaggio amoroso vero e proprio, il discorso che intercorre tra un uomo e una donna in questa zona di confine, dove tutto può accadere, dove ci si può scontrare o incontrare, o non incontrarsi mai. Era venuto a maturazione, dunque, il momento dello sguardo sulla  mia città, ma dal margine, quello delimitato dalle storie delle persone e dai vari linguaggi. Napoli è una città fatta di frammenti, che io amo perché permettono di capire ed indagare, di pensare. Napoli ha tanti centri, storici e non, ognuno dei quali contiene in sé altri centri, come i palazzi antichi, come la parte sotterranea. Confine, ‘cum finis’: segnai tanti punti, li congiunsi e tracciai il margine immaginario della città. Attraverso quei punti il confine si può toccare: fu una semplice intuizione, ma molto sofferta, che mi portò a considerare che tanto si costruisce un confine quando c’è qualcosa da confinare, Perciò, ho dovuto individuare qualcosa che rappresentasse il centro di tutto”.
Qual è il centro?                                                                                                             
“Ho scoperto il carattere simbolico della pizza, leggendolo come un cerchio senza confini, che nell’immaginario collettivo, non solo napoletano, ma mondiale, si espande all’infinito. Immediatamente, in ogni luogo, pronunciando la parola pizza, si ha l’immagine di Napoli. Chiuso il cerchio, tracciato il margine, tornai al mio primo amore, e contattai tredici fotografi e nacque la mostra “Cum finis”. Solo i poeti e i fotografi hanno per le mani lo strumento che permette di andare oltre i confini del sensibile, rievocando la concezione crociana dell’Arte intesa a tutto campo, a condizione che parta dal di dentro. Diedi un incipit ai fotografi, il piccolo testo ‘Carezza stanca’ del mio secondo libro, ‘Il costruttore di illusioni’. Per me la carezza è lo sguardo stanco sulla città: dissi loro di costruire  un’immagine di Napoli guardandola dal confine”.                                                                                                                                                                                                                                                                                      Cos’è la bellezza?                                                                                                                                   
“Il sensibile è ciò che tocco, ciò che vedo, ciò che mi appare scontato: rivela la bellezza. L’idea di Dostoevskij , ‘La bellezza salverà il mondo’, con lo scrittore napoletano Erri De Luca è diventata ‘La bellezza è una forza della natura che parte dal centro della Terra, e, vincendo la forza di gravità, si espande in tutti i punti dell’universo attraversando ogni cosa’. Allora, forse Dostoevskij  voleva dire questo: la bellezza è un forza ambigua, si può capovolgere e diventa: ‘Il mondo salverà la Einstein nella teoria della relatività  ha formulato che E = mc2, l’equazione fisica che stabilisce l’equivalenza materiale tra l’energia (E) e la massa (m). Poi, la sua teoria è stata stravolta, cambiata, prima fisicamente e poi semanticamente, fino a diventare lo strumento di morte più distruttivo che l’uomo potesse immaginare. Secondo me, Einstein, invece, voleva semplicemente misurare la bellezza: mise in relazione con la velocità della luce la forma emblematica dell’immaterialità, ovvero l’energia, e quella della materialità, ovvero la massa. È quello che, praticamente, fanno i fotografi e i poeti”.

Tonia Ferraro