Commento alla Pietà di Michelangelo

di Michelangelo Buonarrotti Non ho davanti ai miei occhi nessuna immagine che mi riproduca la Pietà di Michelangelo, ma nella mia mente turbinano migliaia e migliaia di considerazioni che desiderano uscire in una espressione scritta e, direi, fanno una lotta a spintoni per venire fuori. Il fatto è che ci sono certe cose che non mi convincono del tutto o, per meglio dire, frenano il mio desiderio di esprimermi … Per esempio, è assurdo che quegli occhi opachi non possano esprimere la gioia di quella luce che, tuttavia, viene ugualmente fuori dalla loro opacità, non è assolutamente impossibile, anzi è assurdo che da quelle ciglia non tremino lacrime di dolore sia pure represso. E’ assurdo che  quelle braccia allungate per sostenere un corpo in pieno abbandono, non tremino nel desiderio di tentare un risveglio  impossibile. Sono sconcertato, perché il corpo di Gesù è ancora caldo in un abbandono senza rigidità, un languore che esclude nella maniera più assoluta una durezza marmorea … Eppure,  non sussulta nel tentativo di una ripresa del vigore vitale.
Quella duplice corposità che si compatta e si compenetra nell’immagine della maternità ferita, in uno strazio immenso di dolore universale … Un figlio che, nel suo abbandono totale, anela a rientrare nell’ambito della maternità perduta non può non fremere di vita nella mente di chi, frastornato, osserva una immobilità impossibile, il senso assurdo di una morte vitale. Non ho più la forza di continuare. Mi tremano le mani e la mente freme in un anelito di dolore universale.
E’ veramente tutto assurdo, la realtà marmorea da una parte e quello che la stessa emana dall’altra, e non riescono a trovare una sintesi precisa che scaturisca dall’unione del sentimento che suscita   l’incontrovertibile realtà di una forma che è statica, ma statica non è.
E’ l’animo umano che, alla vista di tanta bellezza, di tanta armoniosità, di tanto significato si accartoccia su se stesso per avvertire in quell’immenso dolore, il dolore dell’umanità intera, e ritrova il senso infinito dell’intercessione di Dio. La sublimazione della materia raggiunge le vette del divino e prende con delicatezza estrema le pieghe del manto, la tristezza del viso, l’abbandono delle mani in una emanazione di luce surreale che restituisce vitalità ad un’opera marmorea che ha perso le caratteristiche del marmo per assumere in pieno quel calore naturale della vita che palpita nell’ultimo sussulto della morte, che sterilizza con lacrime che non ci sono ma che tu vedi: è il dolore trascendente di una mamma sperduta nell’universalità della pena.
Sono una mamma e un figlio, lei viva, lui vivo, ma ambedue sperduti alla cieca ricerca dell’unificazione dello spirito che può e deve compattarsi al di là ed al di sopra della realtà umana.
La mia mente si perde in una così grandiosa concezione della bellezza e, nella mia pochezza, la immagino come un’opera sovrumana, ispirata soltanto dalla volontà di Dio. Come può essere concepita un’opera così grandiosa? Si può pensare che l’artefice che abbia dinanzi a sé un masso di marmo riesca a vedere all’interno un’immagine così grandiosa? E poi, colpo dopo colpo, ne tiri fuori l’opera d’arte? La delicatezza delle mani, l’accavallarsi delle pieghe del manto, la sfumatura eterea di un viso, l’abbandono di un corpo che può solo leggersi in  un viso piegato oltre i limiti della vita, non possono che incrociarsi al di là della consapevolezza umana ed uniformarsi alle leggi multiple della vita e della morte.
Non è assolutamente possibile che, dinanzi a tanta grandezza, non si vedano le lacrime sgorgare dagli occhi di Maria, non si vedano le sue mani muoversi spasmodicamente nel tentativo, ahimè vano, di un risveglio che non appartiene più agli uomini, e, nella consapevolezza dell’impossibile non venga spontaneo il grido: ”Perché non piangi, Maria?“
No, non sono lacrime solo di una mamma , sono lacrime dell’umanità intera, sono lacrime che vengono spontanee dalle nostre ciglia e rigano un viso martoriato dal dolore, un dolore che nasce dalle nostre viscere e che, finalmente, ci rende coscienti delle nostre responsabilità. Con una partecipazione profonda, che non può non farci sentire colpevoli: l’artefice ha voluto creare una pietà che non abbraccia  solo il frutto della  carne e dello spirito di una madre e di un figlio, ma il dolore di tutta l’umanità.
 

Prof. Sante Grillo