Anime nere

munzi 2 - CopiaNAPOLI – Al Napoli Film Festival lo scorso sabato 3 ottobre si è svolto l’ultimo degli “Incontri Ravvicinati” previsti in questa XVII edizione, conclusa con la cerimonia di premiazione sabato 4 ottobre al cinema Metropolitan di via Chiaia.
In questa stessa sede, il regista Francesco Munzi (Roma, 1969) ha introdotto la proiezione del suo ultimo film “Anime Nere” (2014) vincitore di nove premi.
Diplomato in Regia nel 1998, Munzi ha realizzato documentari e cortometraggi. Il suo debutto nel lungometraggio con “Samir” (2014), storia di un ragazzo albanese emigrato in Italia,  si rivela fortunato fin da subito. Il film, che viene presentato al Festival di Venezia e alla Berlinale, è vincitore di due David di Donatello e di un Nastro d’argento.
Dopo “Il Resto della Notte”, nel 2014 Munzi  ritorna con “Anime Nere”, conil quale vince, oltre ad altri numerosi riconoscimenti, tre David di Donatello.
La storia è una riscrittura di un romanzo di Giaocchino Criaco, o meglio – come ha affermato Francesco Munzi – si tratta di una sua continuazione. Nel romanzo di Criaco viene raccontata la saga familiare di una famiglia calabrese, che dagli anni Cinquanta fino ai giorni nostri, è coinvolta nelle trame della malavita dell’Aspromonte.
Munzi, collaborando con lo scrittore, ha ripreso le redini dell’esistenza di ciascuno dei personaggi, e ne ha immaginato un proseguimento.  La vicenda è ambientata ad Africo, il paese natale di Criaco, dove si consuma la tragedia dei figli del pastore Bastiano.
«Questo paese» – ha spiegato Munzi  – è considerato il centro nevralgico della ‘ndrangheta calabrese».
La particolarità del film è senza dubbio quella di essere stato girato quasi interamente in dialetto stretto. Questa scelta linguistica ha fatto leva sulla necessità di tratteggiare in maniera realistica il quadro della vita del piccolo centro, dove – come ironicamente si afferma nel film – “l’italiano non è ancora arrivato”.
Il dialetto è testimone della coscienza di un’identità staccata dal resto dell’Italia. La consapevolezza di questa alterità, di cui spesso la malavita si è servita in maniera strumentale, si esprime in una lingua, che a tutti gli effetti scavalca quella nazionale nell’uso quotidiano.
Il film è stato accolto positivamente non solo dalla critica, ma dalla maggior parte degli spettatori, ed anche in Calabria è stato percepito come un “film calabrese” nonostante il suo autore sia romano.
«In questo – ha chiarito lo stesso regista – sono stato agevolato dalla collaborazione con Criaco, e dall’aver girato ad Africo quelle scene. Ciò mi ha permesso di apprendere molto dai calabresi, anche in maniera inconsapevole».
La malavita organizzata calabrese è un soggetto poco presente al cinema e nella letteratura.  A differenza delle altre mafie è di natura schiva, poco incline ad ostentazioni di potere e ad autocelebrazioni. Il lungometraggio di Munzi ha avuto il merito di riportare alla luce la fisionomia dei rapporti di forza che esistono nel profondo Sud, sotto una luce diversa rispetto a quella di cui sono piene le pagine dei rotocalchi e  i servizi al telegiornale.
Il suo sguardo sulla mafia è critico e dissacrante, ed il male in questo caso non ha nulla di seducente. L’attrattiva del potere mafioso, fatto di facili guadagni e vite avventurose: non costituisce l’oggetto della sua narrazione. Qui si racconta di una famiglia mafiosa in decadenza, che subisce da chi ora sta più alto nella scala gerarchica delle organizzazioni malavitose.
Oggi la polemica, soprattutto a Napoli, verte sulla pericolosa capacità di emulazione che suscita la rappresentazione del male come quella che si offre in alcuni film, o serie televisive. Nel lungometraggio di Munzi, si è abbastanza lontani da questa possibilità, ed è anche questo ciò che rende nuovo ed interessante un soggetto – la criminalità – attualmente molto inflazionato.
Lo scopo della narrazione di Criaco e Munzi è mostrare come mantenere una posizione di forza in quei rapporti sia come rimanere fermi al centro di una voragine. Così anche il nero delle anime del titolo dà un’idea chiara del colore predominante nella pellicola. Un’oscurità che si attacca ai personaggi, e li condanna.

Francesca Mancini