American hustle – L’apparenza inganna

American hustle - L’apparenza ingannaAnni ‘70, New Jersey: due imbroglioni vengono incastrati; per salvarsi sono usati da un ambizioso agente dell’FBI per smascherare politici corrotti.
Per quanto un po’ lungo, il film (USA,’13), acclara definitivamente il talento del suo regista David O. Russell, anche sceneggiatore insieme a Eric Singer.
Il suo punto di vista su quell’America è straordinariamente complesso. Egli recupera la memoria di quel tempo non per farne un’epica di personaggi legati ad ambienti malavitosi – tipo i grandi spaccati di Scorsese, De Palma, o Ford Coppola – ma per cercare di capire che cosa esattamente è successo.
Vicende per cui oggi stiamo come stiamo rispetto ad esempio all’onnipotenza della criminalità organizzata, o alla sostanziale limitatezza dell’angolo visuale della giustizia dell’epoca.
E lo fa accogliendo e sviluppando storie di persone che hanno nuclei di umanità, cui riesce a dare il giusto, variegato e dinamico risalto, pur in ambienti e situazioni tremende.
Non è un moralista. Non si pone col “ditino alzato” (Pasolini) a giudicare, ma connette le valutazioni etiche, che pure vengono espresse, in un contesto narrativo estremamente dinamico.
David O. Russell immette con assoluta padronanza gli stilemi della narrazione spettacolar-hollywoodiana classica, non si pone affatto con la saccenza dell’auteur-pippeur di stampo europeo.
Per quanto sia decisamente sperimentatore di caratteri e dinamiche psicologiche, Russell non lo fa per snobismo culturale; anzi, ricicla perfino atmosfere alla John Travolta, ma proposte con freschezza, ironia e velocità.
Concrea piuttosto le forme del suo dire, adeguandole allo sviluppo le premesse del gioco da lui impostato, che poi è quello desunto dalle cronache.
Ma il regista ci lascia con un invito a guardare più a fondo. Come nel sottofinale: i veri pupari del business del gioco d’azzardo, la Mafia, rappresentata da un minaccioso Robert De Niro, è lasciata in pace; anzi “ringrazia”.
Tutto il teatrino è stato montato dalla forsennata ambizione di un agente che aspirava a grosse responsabilità; che ha trovato spazio presso un Procuratore, anch’egli assetato di notorietà, e che l’ha ottenuta a buon mercato con i politici messi alla gogna.
Tutti manipolano tutti. Tutti ingannano tutti: a partire da se stessi e dai propri capelli acconciati in quelle maniere complicate e fasulle.
Paradossalmente è proprio il protagonista, un ingrassato Christian Bale, il meno disumano nel gestire gli altri per le truffe e le sue manovre spesso disperate, ma tutte di sopravvivenza.
Le più carismatiche del film e più in grado di governare gli altri sono le due interpreti femminili: Amy Adams, che nasconde in quegli occhioni da educanda, così scintillosi, un’energia e una lucidità ferine, e Jennifer Lawrence, già Oscar ‘13 con un film di Russell, che porta, con quell’aria svagata da pupa, un istinto naturale fatto di furbizia animale e istintiva che permea e corazza la sua esplodente femminilità.
Tutte e due terribili e temibili, sono il centro del film. Che ha un elevato livello artistico-tecnico: il montaggio, le scenografie, ecc.
mi soffermerò sul costumista Michael Wilkinsonc: ha vestito gli attori e impostato trucco&parrucco su tutti, ma soprattutto sulle due dive. Ha composto un elaborato lavoro in cui lo splendore delle mises, tutte rigorosamente ispirate a classici della moda dell’epoca, quasi servisse a rafforzare quel gioco di disperata affermazione della propria presenza, che diventa abbagliante, ma in balia di chi ha potere.

Francesco “Ciccio” Capozzi