A proposito di Davis

a proposito di DavisInizi anni ‘60, New York: un tizio, Llewyn Davis fa, o vorrebbe fare, il folk singer con incerta (s)fortuna.
Joel e Ethan Cohen sono gli autori di questo strano film (Usa, ‘12). Autori in senso “totale”: l’hanno prodotto, scritto e diretto; e anche montato, sotto lo pseudonimo di Roderick Jayns. La sua visione lascia un po’ interdetti: Davis non è simpatico; forse se la crede un po’; sembra uno scroccone. E dà in generale l’idea dello sfigato. Però, a pensarci bene, è proprio questo il senso del film: il perdente, la sua epopea.
I film di questi due autori  sono  l’Iliade degli sfigati. Essi lavorano insieme con una sorprendente unità operativa – li chiamano “il regista a due teste”: perfino nelle interviste, l’uno inizia un discorso, l’altro lo termina.
Davis è la summa del nerd non privo di talento: sfortunato e cocciuto, vuole continuare a dispetto di tutto e di tutti. Ispirato ad un’autobiografia di un cantante folk di quegli anni, Dave Van Ronk, fa comprendere la forza di questo personaggio, che perseguiva un suo disegno creativo, cui aveva intenzione di restare fedele, nonostante che un manager, interpretato da un gelido ma efficace Fred M. Abraham, gli avesse comminato, come una pena da scontare, la sua “non vendibilità”.
Lui, certo delle sue incertezze, ma sicuro di trovarsi sulla “sua” strada, continua imperterrito. Anche perché su tutto il percorso narrativo del film aleggia, in controluce  ma nitido, incombente e fortissimo, un personaggio: Bob Dylan. Che invece ha avuto un successo stellare.
È lui il dedicatario del film stesso: ma è visto dal basso, dall’identità di un “picciol omo” (Boccaccio), che subisce, più che osserva, il farsi della storia “su” di lui. Lo incontra pure.
E tutto il film è giocato su questi riferimenti: a partire dall’immagine di Llewyn che cammina in una New York fredda e imbiancata, ispirata alla copertina di uno dei primi  celeberrimi long playing – il vecchio“33giri” – di Bob Dylan, che avanza in una New York innevata: tutti e due con una giacchetta troppo leggera. Così sono puntuali, addirittura rigorosi, i riferimenti alla scena folk di quegli anni: come il trio Peter, Paul & Mary, che anche da noi ebbe un qualche successo. E ve ne sono numerosi altri.
È un’intera stagione musicale da riscoprire: un’intera generazione che faceva della musica folk uno strumento comunicativo, che innovava profondamente  la tradizionale musica country .
Il film è un dolente, rispettoso omaggio, pieno di malinconia e di prossimità ideale “coeniana” a questi artisti che misero la loro dignità, coerenza  e ispirazione davanti a tutto, a costo di avere un’esistenza incerta. Che costruisce l’ identità del protagonista “dentro” la banalità e l’incertitudine del vivere quotidiano di una complessa personalità: i suoi incontri paradossali, molto umorismo jewish, sia con benefattori che con amici e parenti, fungono da equalizzatori della sua tonalità esistenziale, apparentemente smorta e livida, ma ricca di una poesia musicale che, lenta e delicata, commuove e rapisce.
Geniale e adeguato a questa cifra, il lavoro del direttore della foto, il francese Bruno Delbonnel, che stempera nell’inquieta autunnalità, l’intensa umanità di Davis, l’attore, anche bravo cantante, Oscar Isaac.

Francesco “Ciccio” Capozzi